Ho accettato con piacere l'invito per ragionare su <Una mostra di disegni particolare> e toccherò l'argomento più propriamente legato all'immagine e al linguaggio della forma.
Due premesse:
La prima. Creare per il bambino è un fatto emotivo ed emozionante, di riconoscimento dell'esterno e del riconoscersi, dell'esplorare (prima inconscio poi sempre più consapevole) e dell'esplorarsi (sempre inconscio), è possibilità (anche questa inconscia) di disinibizione, di richiesta di aiuto, anche. Come tale l'opera del bambino è testimonianza più psicologica che di lettura storico-documentale. Tentare dunque, attraverso l'opera di un bambino, una qualsiasi interpretazione "scientifica" di fatti e dei comportamenti sociali mi parrebbe in larga parte fuorviante.
Così come leggere l'arte nel lavoro del bambino è altrettanto errato. Questa non è una esposizione darte.
L'arte e la creazione artistica sono sempre frutto di consapevolezza. E prima ancora sono conoscenza, dell'idea e dei mezzi "giusti" e propri per esprimerla.
La seconda osservazione è sullo stereotipo. La conoscenza dello stereotipo è uno "strumento" importante per la lettura dei linguaggi. La sua fortuna sta nell'essere un modello comune a gran parte della gente (e dunque anche del mondo infantile) a cui ci si può riferire immediatamente, non essendo forniti di capacità critica. E' una mediazione già affermata tra la realtà che ci circonda e una sua possibile interpretazione. Per il bambino poi, essendo povero il suo linguaggio tecnico, è una attrazione irresistibile perché gli permette di identificarsi con la società a cui appartiene sfuggendo così, lui pensa, ad ogni critica degli adulti. Il linguaggio stereotipo nel bambino non va dunque condannato in quanto è primo strumento creativo di appartenenza sociale. Non va semplicemente lodato, ma adoperato come punto di partenza per lo sviluppo di autonome capacità di conoscenze personali del bambino. E se oggi lo stereotipo è visto nei cartoon disneyani e giapponesi, non dimentichiamo che nella civiltà contadina era l'immaginetta sacra.
Da queste due riflessioni nasce il mio intervento su questa mostra che è corretta proprio perché non parte da nessuno di questi due possibili equivoci di lettura, - l'entusiasmo per una presunta straordinarietà creativa del bambino e l'approvazione di forme espressive stereotipate a prova di una abilità invece inesistente -, equivoci troppo spesso presenti in iniziative che coinvolgono i disegni dei bambini.
Leggo questa mostra come appassionante testimonianza del sentire.
Ma il quesito posto invece dalla mostra è ben più interessante: se sia possibile capire da questi segni giovanili se e come è mutato l'ambiente, - l'habitat culturale e sociale, voglio dire - quello spazio sociale di informazioni che si ricevono e che si trasmettono, che appunto definiscono poi il termine di civiltà.
Proprio perché nascono dall'inconscio infantile e dunque senza consapevoli mediazioni culturali, credo che la risposta da darsi sia positiva. Soprattutto perché, in particolare, è il linguaggio grafico-pittorico, - proprio per la sua inconsapevolezza e per la sua capacità inconscia di mediare tra comunicazione individuale e ricevimento sociale -, che può meglio di altri linguaggi dirci i mutamenti nel profondo delle società. Perché - il linguaggio dei segni -, costruisce oggetti, forme e colori, immagini e storie che poi, a mutamento sociale e storico avvenuto, osservati nel nostro tempo contemporaneo, ci danno la dimensione concreta del tempo trascorso; e ci accorgiamo quasi d'improvviso che non esistono - di quei segni - che labili tracce superate, non più necessarie nel nostro presente, del tutto o in parte.
Nel caso di questa mostra, testimonianza e indagine nello stesso tempo, i segni e i messaggi che vediamo riprodotti e rappresentati, siano essi l'animale da cortile, il frutto o l'albero, l'uomo contadino o l'operaio, non fanno di certo parte dell'insieme caotico messaggio degli oggetti e dei super-eroi che la civiltà di oggi propone: mancano l'automobile e l'aereo, la merendina incelofanata e la cocacola, l'atto sportivo e la televisione, per non parlare dell'elettronica e dell'informatica. Emerge invece con evidenza la separatezza di un linguaggio-civiltà ancora rurale dai temi della globalizzazione che oggi imperano, globalizzazione di civiltà, di mezzi d'uso e di consumo, di tradizioni; un termine questo - globalizzazione -, che racchiude in sé i tanti significati di mutamento non solo di linguaggi ma di produzione e di scontro di interessi sempre più dispersi e conflittuali tra loro, termine che tanto è lontano da un altro termine - parcellizzazione - a cui invece potremmo far corrispondere il mondo rurale e operaio.
Restando nel campo del linguaggio visivo, è interessante sottolineare una riflessione di Talamini sulla caduta di identità della poetica dei ragazzi via via registrabile fino agli anni ottanta, testimonianza di una crisi di valori della società ma non di ispirazione soprattutto nelle ragazze (che anzi quest'ultima sempre più cerca nella solitudine e nel tormento la risposta per il proprio esistere disagiato), a cui corrisponde, diciamo noi, nel mondo dell'arte un linguaggio artistico, ma anche di comportamenti, che si presenta sotto le sigle del postmoderno e del new, testimonianza questa di una crisi di produzione originale (e nascita dunque di un linguaggio di stereotipi banalizzanti) da attribuire ad una società (e non solo alla scuola dunque) che non ha un proprio autonomo modello da proporre.
E dunque sembra naturale che a società in divenire corrispondano linguaggi di transito, che in una società in rimescolamento si affermino forme e linguaggi in libertà disordinata, con una prevaricazione dell'uso collettivo del bene a fronte di una affermazione confusa di individualismo sregolato.
Ma non mi pare che si possa affermare che in questi ultimi anni sia avvenuto un profondo rivolgimento epocale (dal mondo rurale a quello industriale e poi postindustriale), rivolgimento che ha radici ben più lontane e che nella nostra realtà contadina è avvenuto sicuramente ben prima del periodo temporale che la mostra descrive e copre. Non siamo cioè di fronte ad un panorama totalmente divaricato tra ruralità e postindustria da un lato e mondo tecnologico dall'altro, quanto piuttosto ad un residuo di mondo contadino e di piccola borghesia operaia che si affaccia alla civiltà dei consumi in ritardo, impreparata, affamata direi, tumultuosamente e senza un reale proprio senso critico.
Così, mi sembra giusta l'osservazione di chi dice nel catalogo della mostra che questi lavori infantili sono isole di linguaggio personale, frammenti del sentire, piuttosto che testimonianza organica di questo rivoltamento.
E' questo non è né bene né male. E' però un dato su cui lavorare.
Ma in questo comunicare si nasconde un rischio, - ci dice Talamini -, che si affermi lo stereotipo negativo e che la creatività (così come avviene per l'arte grande d'oggi) sbandi senza collegamenti con la tradizione, nella dimenticanza della propria tradizione. E, se mi si permette la divagazione, in questo senso si muovono le esigenze e le richieste del nuovo leghismo che non a caso è nato nel Veneto, disordine politico ed ideologico di comportamenti egoisti mescolati ad esigenze e necessità fisicamente - direi anche strutturalmente - e idealmente sentite, e riemergenti perciò come necessaria riflessione per chi comunque le sue radici le sente necessarie e ancora vitali, correndo però così il rischio - proprio per quella carenza di identità critica e autocritica -di non riuscire a capire il nuovo.
La non esistenza oggi di una continuità di tradizioni, o almeno di una conoscenza o riconoscenza di un insieme di storie, contadine o operaie, ma anche di antica borghesia, con le loro stimmate e i loro messaggi, ci dice che questa rivoluzione totale - che non dimentichiamolo, riguarda la comunicazione e dunque propriamente i linguaggi, e i modi tecnici di esprimersi, che già adesso non sono più le matite e i colori ma che saranno, e già lo sono in gran parte, i mezzi audiotelevisivi, i computer, i naviganti di internet -, è per ora ancora un rimescolamento disorganico di interessi, di disagi, di solitudini, quando non di disperazioni.
Ma questo non può portarci ad un pessimismo che sento in qualche modo di maniera sulle nuove forme espressive - così condizionate, sento dire da tanti - dai mezzi tecnologici.
Capire il nostro passato, proteggerlo, può essere l'arma giusta per affrontare meglio e con più sicurezza l'ignoto che va affermandosi tumultuoso.
Ma il disagio e le diffidenze che soprattutto gli ultimi disegni mostrano sono ancora sentimenti e incertezze "umani", ancora nostri, della nostra società, tanto simili però ai disagi e allo "star male" di chi ci ha preceduto nel tempo. Si tratta, anche da parte della scuola, di impegnarsi per conservare questo sentire umano, anche quando il mutare di adesso sarà divenuto passato, e l'ignoto di oggi sarà il conosciuto.
E la domanda non deve essere se un domani vi saranno ancora segni e colori come questi, ma quali saranno i nuovi mezzi dell'arte che useremo per interrogarci su di noi, e se sapremo usarli a nostro vantaggio di umanità.
E se oggi possiamo riflettere su tutto questo - e per quanto mi riguarda, con ottimismo - è anche perché la scuola, e i suoi insegnati, nonostante tutto, ha saputo accettare la sfida, restare sul campo, obbligare a riflettere, a fare domande, a cercare risposte.