L'opera inquieta di Arturo Martini in una retrospettiva a Treviso
L'anima della vita è il movimento, e così ha inteso anche Arturo Martini nel plasmare la sua opera. Visitando la mostra di Treviso, allestita nella vecchia chiesa di San Gregorio, avvertiamo subito un ambiente mosso, agile ed inquieto, e ci si prepara istintivamente a godere di quest'aria vibratile, di questo «tutto movimento» che pare quasi vita brulicante nata dalla materia stessa.
Sotto le lunghe strisce di tela dell'elegante ed intonato arredamento inventato da Scarpa, si tende l'aria ad animare le forme, la stessa luce che penetra dal chiosco apre l'ambiente ad una atmosfera reale, per una misura equilibratamente umana. Tutto l'ambiente è adatto per la migliore esaltazione delle opere di Martini, eppure... ci si aggira 'tra una scultura e l'altra, 'dai frammenti di idea alla compiutezza espressiva di un grande blocco, si vorrebbe ammirare e se ne resta incapaci.
Per Martini grande scultore, dobbiamo dirlo subito, il giudizio è sostanzialmente negativo. La grande forza dello scultore si frantuma spezzettata nel particolare pittorico, molto più spesso nella durezza di risoluzioni tecniche poco abili. La vitalità che prima abbiamo avvertito si sfalda nella irrequietezza di un'opera eclettica, talvolta classicheggiante, talvolta espressionista o bozzettistica, con tentativi nel cubismo, legata a dei valori plastici troppo labili per convincere, afferrarci. Ma affrontiamo un giudizio sulle opere.
La grafica ci rivela subito un Martini semplicistico, (di ironie alle sue incisioni viene subito di fare il nome di Casorati, ricordandone l'eleganza e la suggestione) alla ricerca di una espressione immediata nelle pitture, irrimediabilmente scadenti nella composizione, debolissime nel colore e nell'invenzione. Nello grandi opere di scultura a 'tutti tondo Martini ci appare invece quel grande scultore che avrebbe potuto essere e che non è riuscito ad esprimere.
«Il Figliol prodigo», «II buon pastore», «La donna alla finestra» e quattro grandi di figure panneggiate, mostrano tutti la stessa carenza di fondo, la difficoltà cioè di concludere in ogni parte il tema affrontato.
Nel «Figliol prodigo», di impostazione classicheggiante abbastanza fiera e suggestiva, si avverte una fastidiosa masticatura nel trattare il panneggio, tale che l'opera diviene frammentariamente rigida, eliminandone ogni visione più distesa ed organica.
Lo stesso avviene per le quattro figure panneggiate, qui in maniera ancora più evidente, e nella figura del «Buon pastore», che tuttavia appare di una certa imponenza nella sua rozza monumentalità.
Diverso il giudizio per «La donna alla finestra» vista di schiena, opera finissima, per la materia e l'impostazione, a cui però rimproveriamo ancora la mancanza di una mano di scultore, il gusto decisamene pittorico del chiaroscuro, senza un volume deciso e definitivo.
E' un Martini sensibile, non un Martini scultore.
Un giudizio positivo merita invece un nudo di donna coricato. Di bella invenzione, la donna stesa nella aria, plasticamente risolta, pittorica quel tanto che basta per renderla elegante e attraente; è forse l'opera più perfetta, come bello è il piccolo personaggio di giovane pronto a scattare, vigoroso, teso in ogni nervatura, trattato senza sforzature.
Appaiono interessanti anche gli altri due nudi virili esposti nel chiosco, anche, essi sentiti come elementi solidi nel pieno dell'aria, corrosi appena dagli elementi mobili di acqua e di luce, sono lo stesso tema e la stessa invenzione attuati per il nudo di nuotatore da prendersi quasi a simbolo di tutta la ricerca martiniana.
Se concludessimo adesso, volontariamente trascurando l'opera di ritrattista e di bozzettista per monumenti, ed ancora altre grandi opere come il «Tito Livio», «La donna trafitta dal chiodo, », «L'uomo decapitato», opere sfocate in cui avvertiamo elementi culturali colti d sfuggita e mal assimilati saremmo di nuovo presi di quell'aria sforzata e brulicante avvertita al nostro ingresso, risentiremmo un'anima che sta per dire qualcosa.
Non possiamo allora negare a Martini una tensione artistica veramente e profondamente umana, sentita con forza ed entusiasmo, la risentiamo però rimasta prigioniera dalla materia, lo spirito inseritovi dentro a Forza, poi mai liberato in maniera eterna, quasi un vaso di grosso cristallo ermeticamente chiuso, che grida dentro e che noi mai potremo udire nella voce, ma solo intuire.
Paolo Pennisi
Dal n. 53 anno XVIII di "Minosse" 31 dicembre 1966
Espressionismo ed arte sacra
In occasione del VII Biennale d'Arte Sacra allestita all'Antoniano di Bologna, il nostro esimio prof. Perocco, ha scritto un interessante articolo dal ti tolo «come gli artisti affrontano il tema sacro», apparso sul Gazzettino, del 1°. dicembre u.s. chiamato in causa, sia pure in accenno, mi permetto di inserirmi nel giudizio del Prof. Perocco che innanzitutto mi sia concesso ringraziare per la gradita citazione, e a cui — spero — non dispiacerà queste mio intervento, dettato da nessuna polemica ma dal desiderio di esprimere un mio peri siero su di un argomento di vitale importanza come quello dell'arte religiosa d'oggi, tema fondamentale di tutta la mia opera di pittura; e per chiarire un altro aspetto del quadro in. discussione, portato — a mio giudizio — solo come testimonianza di una posizione unilaterale preminentemente manierista, anche se di riconosciuto impegno.
Il Prof. Perocco scrive fra l'altro: «l'accenno più diffuso e il carattere preminente nel soggetto sacro moderno, hanno l'impronta espressionistica. Basterebbe il parallelo fra due dei maggiori artisti d'oggi che hanno prediletto questo motivo: l'opera ai Georges Rouault in pittura e quella di Georges Bernanos in letteratura».
L'osservazione è scelta acutamente; l'espressionismo è la più sentita e desiderata forma di raffigurazione dell'artista di oggi; ma — e qui vorrei intervenire — a mio modesto parere, l'espressionismo fondamentale lo è come mezzo di èvasione più che di espressione. Evasione violenta, un po' vigliacca, di ogni responsabilità: risoluzione, la più facile a quella che oggi si vuole definire «urgenza interiore di espressione» infantile nella sostanza perché priva di equilibrio, di legamenti umani; esasperazione spesso sincera, ma appunto per questo, testimonianza di impotenza, gli stessi Bernanos e Ruault hanno — sempre a mio giudizio — di queste debolezze e manchevolezze che oggi permeano l'arte religiosa, e in ambedue l'espressione ha spesso troppo poca speranza e tanta disperazione, grandi abissi o brevissima serenità, esasperazione di uomini che si dibattono in gabbie e i queste gabbie muoiono.
In queste gabbie siamo ancor oggi, raddoppiate però di sbarre, e mi sorge il sospetto che ognuno si accontenti di mostrare la propria condizione di prigionia, il proprio tormento, aggrappandosi alle sbarre e disperandosi, ma senza tentare di venirne fuori. Da questa premessa, espressionismo o manifestazione di manierismo, di profonda impotenza religiosa e artistica insieme, che è ormai la testimonianza non di questi soli ultimi decenni, ma di tutto il nostro secolo; e in questo senso non credo di essere espressionista.
Il Prof. Perocco aggiunge: «Abbiamo accennato a due grandi nomi che ci venivano spesso in mente di fronte alle opere più profondamente impegnate, anche se talvolta al limite del grottesco, come in un grande quadro di Paolo Pennisi..».
Indubbiamente esiste il grottesco nella mia opera, ma accanto al grottesco avrei gradito fosse stata rilevata anche quella forza morale che io voglio che alcuni miei personaggi abbiano e che credo — e spero di poterlo dire senza troppa fastidiosa presunzione — di essere riuscito a mostrare.
Nell'opera in questione, un « Calvario », ho voluto rappresentare una folla, sperduta nel tempo, che porta con sé sulle spalle il Cristo inchiodato sulla croce, come porterebbe un forcone, una zappa, una vanga;un Cristo che diventa un fantoccio, uno spaventapasseri, quasi un carnevale fatto col sangue di un Dio, solo perché ci si è dimenticati, per abitudine, che questo unico uomo è Dio; per la grande confusione di ciò che oggi ormai non sappiamo più cosa sia giusto o falso.
Ma in alto fra le tante figure, nella massa, un'altra figura si erge, luminosa quella di Cristo, che apre le sue braccia ancora a croce, fisicamente possente, e che nella sua divina possanza, vuole significare la espressione di una profonda fede, di una luminosa e gioiosa verità.
Ho trattato questi due punti dell'articolo — l'espressionismo e il grottesco — per il desiderio di indicare al giudizio del Prof. Perocco quel qualcos'altro di costruttivo che è rappresentato nelle mie opere. Accanto all'affanno umano — divenuto importantissimo per noi nella conquista delle cose della vita — e perciò grottesco — io credo di aver saputo rappresentare la coscienza sicurissima dell'esistenza dell'anima, una dignità di fede, d'accettazione non passiva del VERBO che porti a qualche risoluzione. C'è angoscia, non impotenza, esasperazione talvolta, non confusione, né rabbia; la ossessione del grottesco — che non rifiuto — è solo nella folla, non nell'individuo singolo.
Non mi pare quindi completo il giudizio di semplice «espressionismo» perché questo nega ogni riflessione classica, anche nelle proporzioni più discrete; né di accettare un giudizio generale di grottesco, quando si vuole condizionare e limitare l'aspetto — per me di fondamentale importanza — dell'individuo personaggio, che si erge dalla massa per esprimere una verità luminosa, anche se in mezzo a questa massa disorientata e confusa, è costretto a vivere di forza.
Posso anche ammettere di non essere abbastanza comprensibile nell'espressione del mio pensiero artistico.
Ma anche questo purtroppo, rientra nel tormentoso travaglio, non solo dell'artista, ma di ogni uomo moderno, alla ricerca della verità.