(dello scrittore spagnolo Vintila Horia, Puebla De Sanabria, 11 aprile 1966)
Caro Pennisi,mi trovo stasera in albergo, tra la Galizia e la Castiglia, e vado a partecipare alla festa di S. Vintila, mio santo, che si celebrerà nel paese di Pungin, provincia di Orense, in pieno Altopiano Celtico, popolato da leggende e da vecchi miti. Sta piovendo a dirotto. Ogni tanto, sulla collina di fronte appaiono il castello e la chiesa di questo lontano paese, come fantasmi di pietra, e le montagne di neve, e la notte, da dove viene la pioggia. E' un paesaggio quasi monocolore, severo e fantastico, l'estremo nord-occidentale dell'aspra e stupenda Castiglia. Questa sera, in questo albergo circondato da montagne coperte di neve, posso scriverle...
... In tutte le sue opere ho trovato quella inquietudine di cui mi parla, terribilmente espressa non soltanto nel «dramma» di ognuna di esse, ma anche nel colore. Infatti credo che la quasi monocromia dei suoi quadri, sfruttata in tutta la sua gamma di variazioni, contribuisce a dare alla sua pittura una specie di dimensione metafisica che è senza dubbio la caratteristica della sua opera. Qualunque ricerca metafisica non può essere policroma, se posso dire così, perché realizzata in una interiorità, in uno stile di pensiero. La sua pittura è un modo di pensare e implica la ragione e il sentimento, è una totalità, e credo che, in questo senso, somigli al mio scrivere, a quello che rappresenta per me la ricerca, la fraseologia del romanziere e del poeta. La sua «inquietudine» come tema pittorico è un problema che lei vuole risolvere plasticamente, cercando un punto d'appoggio universale nella sua propria esperienza, nella sua crisi personale. In più, lei è un credente, cioè un uomo completo, non può non rinunciare alle parzialità che combinano a formare oggetto e soggetto nella arte e nella letteratura contemporanee. Il suo frugare nel monocolore è una specie di tecnica del conoscere, drammaticamente sospesa alla sua intima ricerca personale che non può dilagarsi in una molteplicità superficiale. Il suo monocolorismo è forte, coraggioso, è ricco come una filosofia. Mi fa pensare anche al monocolore dell'Inferno di Dante, o alla sottigliezza insulare di un grande romanziere, padrone assoluto di un suo universo in questo caso monolitico o monostilistico. E' forse, questa, la strada nella quale dovrebbero impegnarsi i pittori d'oggi. Non lo so, non essendo pittore, ma credo che la pittura astratta, o chiamata così, perché nel fondo non lo è, sia arrivata, come la «nouvelle vague» nel romanzo, ad una via senza uscita. Non si può prescindere dall'uomo, come non si può prescindere da Dio, in letteratura come in pittura. Così io credo che lei, nei suoi quadri, abbia raggiunto la semplicità del mistero, che è, poi, il vero «astrattismo», quello che ci schiude altre porte e ci fa vedere altri mondi, lo astrattismo dell'anima e non della forma.