Naufragi - Paolo Pennisi

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Naufragi

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Eroi



Erbstein, il primo a destra, e il Grande Torino (1948-1949)

La luce filtra appena dalle persiane abbassate, chiarore arido dell'alba, schermando di pallore la stanza dell'ospedale. Sul letto nitido giace un uomo non ancora vecchio ma abbastanza stanco delle cose pensierose della vita da inciampare con sempre maggiore abitudine nel piacere tremendo di sollevare i ricordi dal nulla per renderli vivi in un presente che non stimola più interessi, semplice e accettabile finzione capace di lasciar trascorrere senza troppa angoscia il tempo che ci spetta prima di morire.

Pensieri pasticciati ai ricordi si intersecano, si accendono, svaniscono. Gli occhi miopi vagano tra ombre opache del soffitto disegnando momenti confusi in appoggio alla memoria.

Come ero da bambino?, -si domanda d'improvviso curioso-, da bambini... i miei fratelli ed io... come eravamo, come eravamo fatti ... siamo stati bambini e non lo ricordiamo, -pensa affettuoso-, cosa ricordo di me bambino... cosa facevo allora... quanti anni fa?... più di trent'anni... certo, trent'anni... quanto tempo è passato, -si commuove-, si correva e si faceva a botte, si giocava e si aspettava il domani per fare... fare... mi divertivo tanto... quanta allegria... e non ricordo pensieri angosciosi... correvo tanto fino a sfiatarmi, e giocavo al pallone... e perché mai poi ero diventato tifoso del Torino, maglie granata di poche soddisfazioni e di tanta gloria.. Già, perché?

La memoria, indossato l'abito antico del sogno, espone il suo ricordo placebo nell'uomo che si è assopito. Era il 1949, quest'uomo, allora quel bambino, di nove o dieci anni (la memoria non si sofferma a lungo su questi particolari, non contano quando la vita di un uomo è abbastanza avanti negli anni, lo sappiamo tutti) aveva scelto a caso (lo ricordava bene questo, la memoria) di tifare per una squadra che fosse forte (è normale questa scelta in ogni bambino, è la ricerca di sicurezza e consenso sociale) ma insieme non fosse la prima di tutte (e questo è meno normale). Senza saperlo quel bambino era un combattente, la sua natura amava contrastare il più forte per godere del piacere di opporsi, di combatterlo; e quel ragazzino a cui tutti volevano bene era così anche in tutte le sue piccole lotte quotidiane, con i compagni, i fratelli.

Il sogno memoria si interrompe, il corpo proprietario dell'uomo smania nel sonno torpido accaldato di febbre. Adesso è ritornato alla quiete. Riappare dall'angolo il ricordo.

In quel momento guidava il campionato la Juventus e il Torino seguiva ad un passo; dunque, la scelta veniva di conseguenza, la battaglia era aperta, al Toro il compito di sopravanzare. All'inizio la sfida viveva nel limbo di una distratta curiosità, la stessa di ogni bambino che comincia a vivere il mondo delle relazioni sociali, degli schieramenti, delle appartenenze, nell'egual modo con cui si parteggia per i Greci o per i Troiani, per i cow boy o per gli indiani (e lui era schierato naturalmente sempre con i secondi). Poi ci fu Superga, tutta la squadra perì in un rogo che lalzava al cielo per sempre, salivano tra le nubi d'oro gli eroi in maglia granata, invincibili per l'eternità, a calpestare eternamente vittoriosi i prati smeraldo del cielo, sicuri e sereni nel sorriso delle figurine che incollò piangendo sulla testiera del letto carezzandole una ad una, rito pagano di dolorosa iniziazione religiosa, e il funerale sotto la pioggia (ma poi, pioveva, o non era il dolore immenso che lacrimava?) raccontato dalle parole rotte dall'emozione dei cronisti che trasformavano l'angoscia infantile in un rito magico, e gli articoli dei giornalisti famosi che non riusciva a leggere perché bagnati di lacrime, gli eroi che se ne andavano, e il mito ingiusto dell'eroe sconfitto prima della lotta che nasceva fitto nel suo cuore, nelle viscere di un bambino sensibile e fantasioso, ribelle fino allo sfinimento. Non fu solo dolore, reazione emotiva, sentimenti generosi. Fu una trasformazione profonda del modo di sentire.

Da allora la sua allegra voglia di lottare si trasformò lentamente in un'ansia chiusa di resistere agli avvenimenti avversi, di non arrendersi ad un destino che gli aveva detto (è così che aveva cominciato a pensare) che non esistono condizioni di lotta pari, costruendosi dentro la sfida alla sua debolezza e alle sue emozioni ma anche alla prepotenza degli altri, ad ogni sconfitta accontentandosi nella superbia celata dal sorriso di sapersi invincibile in quello spazio solitario che aveva deciso spettare solo a chi aveva scelto di essere eroe. Idealismo e concretezza si impastavano nel suo crescere uomo, costretto giorno dopo giorno dai casi della vita ad essere aspro nel suo cuore per vincere, giorno dopo giorno, l'ottusità e l'arroganza di chi non si vergogna di schierarsi in ogni caso dalla parte del vincitore, del più forte.

Il corpo si agita e lotta tra i ricordi adesso troppo dolorosi. La memoria è spinta via dal rantolo affannoso dell'uomo riemerso dal sopore malato, la tosse che lo scuote.

E un uomo arrivato nel momento dell'età in cui non serve domandarsi se si è scelto giusto o meno, se si è fatto bene o si è sbagliato, adesso non serve più, e non è presto o tardi, semplicemente non ha valore, conta adesso il respiro affannoso, la febbre che divora, attendere i giorni della guarigione se verrà per ricominciare a scendere con i piedi sul pavimento delle case e degli uffici, a trascinarsi per le strade, senza domande da porsi, senza suggerimenti se non quelli notturni dell'angoscia che durano il tempo di farci invecchiare ancora un po senza poter fare nulla, non come allora che ogni avvenimento bambino esplodeva sano nell'ansia turbinosa di riempire di scoperte il giorno domani, e gli altri giorni che avremmo aggredito di giochi, di sorprese, di vacanze allegre, di rabbia aggressiva per ogni vittoria, di animalità fiera e gioiosa... e come era bello tutto questo...

Il sole fa forza fuori e irradia luminoso contro le lame delle tapparelle, penetra nella stanza e sparge luce, è una di quelle giornate che spingono a vivere, danno l'energia del fare. L'uomo preme il campanello e chiama l'infermiere.-Mi può fare ombra, per favore, -mormora con un faticoso sorriso-, la luce mi fa male, mi dà dolore. Il silenzio ora è compatto chiuso tra le pareti bigie della stanza, ronza nel cervello dell'uomo dal respiro affaticato. -La mia vita cosè?. I pensieri rotolano svaniti.
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