Da Nexus n. 44 del 2002 firmato con lo pseudonimo di Cartesio
Segnali di fumo
Il futuro di ogni città sta nel suo sapersi trasformare all'urto dei cambiamenti che le diverse società del mondo, nel loro confrontarsi, mettono ciclicamente e inesorabilmente in moto.
Allora, la fatica che enormi masse umane compiono per essere lucidamente propositive, l'impegno che vi devono infondere affinché la trasformazione volga in positivo, abbisognano di una saggezza di governo che non inciampi sulla diatriba legata ai nominalismi ma, piuttosto, che sappia individuare e perseguire i contenuti necessari a rendere vincente il proprio progetto.
Oggi è il termine globalizzazione che si pone in mezzo ai contendenti, suscitando troppo spesso un dibattito deviato sui principi piuttosto che sui contenuti da dare. Fasi storiche precedenti hanno visto verificarsi lo stesso scontro: la civiltà medievale dei castelli che tenta inutilmente di difendersi dalla nascita della città prodotta dalla borghesia mercantile, il latifondismo che si asserraglia in difesa spesso violenta per non cedere all'industrializzazione dei processi produttivi. Chi seppe capire e impegnarsi nel nuovo riuscì a dare sostanza e fortuna al proprio avvenire, alla società a cui apparteneva. Chi si oppose non poté che arrendersi e sparire.
Trasformarsi e mutare dunque, in alcune precise fasi storiche, è indispensabile alla sopravvivenza di una civiltà, di una società, di una città.
La città di Venezia ha costruito nei secoli il suo straordinario destino nella intuizione, applicata con saggezza, di tale imperativo vitale. La decadenza è nata quando, acquisita in ritardo l'idea della modernità, non ha saputo mutare l'indirizzo della sua storia. Per lunghi anni ha abusato di sé, del patrimonio ereditato, con una cecità totale per i danni che arrecava a se stessa. I suoi cittadini non hanno voluto o saputo dedicare le proprie energie alla costruzione, certo più faticosa e meno remunerativa nell'immediato, di un più moderno modello di sviluppo. Un'industria inquinante e pericolosa, un'insensibilità ottusa verso il proprio degrado ambientale, una monocultura turistica del mordi e fuggì, hanno ammalorato la cittàcontenitore che, come una decadente aristocratica in rovina, ha preferito continuare a vestirsi di feste suntuose rabberciando vesti tarlate, per nascondere la miseria del presente.
Questi nostri tempi offrono forse un fiato nuovo, una speranza di risveglio. Energie concrete la investono. Vagando per il centro storico, qua e là, tra le gru che si stagliano contro il cielo, sembra di risentire lo spirito della Venezia cosmopolita quando era la Serenissima. Lo straniero non è solo il turista provvisorio o lo studente universitario, è gente dalle lingue diverse, sono persone che a Venezia aprono la loro attività produttiva, impegnano la loro vita e le loro risorse umane.E lo stesso clima è avvertibile a Mestre e a Marghera, anche se meno colorato e più disperso.
È solo un'impressione, un desiderio di quel cosmopolitismo che fece di Venezia la città ospite dei commerci dei turchi, degli arabi, degli ebrei, dei cinesi, dei tanti popoli d'Europa, degli armeni in fuga...?
Forse, ma se a questo associamo un'altra impressione, questa più concreta e reale, di avere di fronte una città che sembra abbia capito che le si offre un destino nuovamente possibile, che ha individuato i punti deboli da correggere, gli errori da cancellare, che dimostra una volontà concreta di adoperare la grande occasione offerta dalla sfida mondiale della globalizzazione, rifiutandosi di ripiegarsi su se stessa, allora, lo speriamo vivamente, il mutare potrà assumere finalmente il segnale tanto atteso che un futuro creativo esiste, basta volerlo.