Da Informazione Arti Visive n. 10 del settembre 1981
L'artista tra il pubblico e il privato
Qualche tempo fa, guardando in alto, ho visto stagliarsi su di un colle una piccola chiesa di tanti secoli fa, nitidamente visibile da ogni parte ma anche di difficile accesso per chi volesse penetrarvi.
Questa immagine mi sembrò rivendicare orgogliosamente due cose assieme: che la propria qualità morale (religiosa, ma anche, per come allora era sentita la religione, profondamente inserita nell'animo popolare e perciò della stessa società), la propria "umanità" dunque, non andasse celata ma dovesse vivere tra tutti, con una riconoscibile dimensione pubblica, e come si dovesse d'altro canto riuscire a conservare gelosamente una propria "difficile" intimità; ancora, mi parve affermare come questa intimità andasse vissuta intensamente in piena luce di sole, di aria e di pioggia, da soli e in mezzo agli altri, gioiosamente e disperatamente. Può forse essere questa la migliore definizione di cosa sia un rapporto d'amore che, di fronte a tutti, insieme a tutti ma anche contro tutti, chiede di vivere con assoluta pienezza e disponibilità.
Ma non potrebbe, ancor meglio, rappresentare la parabola di ogni artista che si ponga l'esigenza di capire (vivere cioè responsabilmente o comunque) il proprio esistere ed essere, la propria dipendenza dagli altri (necessità degli altri e per gli altri), in una società che ti sembra attenta e bisognosa di amore, umanità e arte ma, che in realtà tende a coercizzare ogni protagonista in spazi articolati in ossessionanti paradossi?
La domanda che pongo è se cioè realmente la nostra società ama l'uomo e la sua storia quotidiana, (l'essere creativi), se da qualche parte vi siano attenzioni non solo circoscritte dai riflettori mercenari della fama; se, infine, tutti gli altri, i "normali", hanno bisogno "dell'anormalità" degli altri che rimangono. Ritengo indispensabile di conseguenza che, questa volta, ogni analisi sul rapporto tra artista, istituzioni private e pubbliche, non possa non essere preceduta (prevaricata) prioritariamente (o esclusivamente) da un insieme di risposte sui legami esistenti tra natura dell'"essere privato" di chi crea (non solo dunque dell'artista) e il "pubblico" inteso come alternativa, anch'essa creativa e propositiva, di larghe componenti non ufficializzate della realtà sociale.
Perché questa volta?
Altre volte in questi anni si è scritto, abbiamo scritto, sul tema delle istituzioni pubbliche e private, con analisi che tendevano ad evidenziare da un lato (analisi politica) i guasti e le mostruosità prodotti dalla civiltà capitalistica, dai suoi mass media, dalla parallela caduta ideologica delle società socialiste, e dall'altro lato tendevano a capire e spiegare i meccanismi della produzione di mercato (analisi tecnico-specifica) per, sia pure in qualche modo, esservi. Ne sono emersi dibattiti intensamente vissuti, con un vago e amaro sapore di impotenza e di frustrazione che emergeva, di propositività velleitaria, di volontarismo. Si riciclava cosi oggi mi pare un ritualismo di ottimistici propositi di lotta che i fatti si incaricavano di lì a poco di ridimensionare, con una continua "sorpresa" per un qualcosa che, non previsto, allora non immaginabile, riponeva tutto in discussione.
Si potrebbe affermare (con ironia forse un po' troppo scopertamente contraddittoria) che quello su cui riuscivamo a raccordarci, in qualche modo, era l'incerto, il non definibile, l'incessantemente evolversi verso qualcosa che consolidandosi per qualche tempo riprendeva poi a ridisegnarsi (né sappiamo o vogliamo dire oggi se ciò fu (ed è) positivo). Si andava così accettando oggi lo vediamo bene un metodo di lavoro e di produzione basati sulla riconosciuta precarietà dell'agire; contemporaneamente però un elemento riusciva, tra mistificazioni e falsi modernismi, a "farsi vedere" con forza, una quale sofferta ricerca di riscoperta umanizzazione, con un ruolo prevalente imperniato sui sentimenti dell'uomo di tutti i giorni e dell'artista quando questi due soggetti / concetti / contenuti si identificano nei complessi ed imprevedibili spazi degli esclusi, degli emarginati, delle minoranze comunque segnate.
Artista come emarginato dunque, artista romantico?
No di certo. Tale impostazione va letta al "plurale", con uno spostamento dalla identità di crisi individuale (che rimane, deve rimanere, e proiettare la sua mitica forza di movimento e di tensione e che quindi non viene posta in discussione in quanto è) a quella di quale dimensione / crisi propositiva "pubblica" deve acquisire la stessa affinché i bisogni della collettività riprevedano la presenza creativa (quindi anche e soprattutto dell'artista).
Attenzione però ! Di quale collettività si parla, di quale società e di che qualità sono i bisogni che essa reclama e che è in grado di esprimere? Do per convincente la valutazione di qualità dei bisogni medi, espressi cioè (e validi dunque) per la media delle diverse componenti sociali, in considerazione del fatto che la nostra società occidentale nella sua stragrande maggioranza appare normalizzata monoliticamente nell'espressione e nel soddisfacimento dei bisogni.
Appare troppo lunga ogni analisi, in questa sede, sulle cause che hanno determinato ciò, rinviando un approfondimento all'accurato intervento di Romano Perusini, "crisi di mercato e crisi di identità", apparso in "Informazioni AV" dell'ottobre '79.
Nel riproporre però l'idea negativa di una società ancora oggi sostanzialmente espressiva di bisogni medi, non possiamo non notare come oggi tale definizione sia meno soddisfacente e incompleta, né non sottolineare come molte "regole" tendano a frantumarsi e scomporsi facilmente (anche se contraddittoriamente), come emergano sempre più spinte diverse e contrastanti.
Scrive Alberto Granese: «II problema se le società siano "una" o "molte"...si definisce come problema di interpretazioni teoriche e di strategie di intervento (politico) in una società che esibisce ed afferma tanto più apertamente e provocatoriamente le differenze quanto più il reticolato delle linee di scambio configura un sistema di interdipendenze e interazioni non meccaniche. ...Proprio perché sono in atto importanti progetti di unificazione, ci si trova di fronte a sorprendenti differenze.» In queste parole vi è un richiamo a prestare attenzione ai meccanismi in atto (o possibili) di scomposizione per la costruzione di una nuova società. Ma ricomposta e ricomponibile come? La risposta (parziale certamente nel metodo ma precisa nell'identità ideale) può venire dall'impegno di tutti ad individuare e proporre ogni aspetto che possa in qualche modo suggerire spinte di rinnovamento, che permetta a chiunque di intervenire nei confronti del pubblico (società e istituzioni) se non proprio come espressione di classi o realtà sociali definite, almeno come soggetto protagonista di realtà emarginate non socialmente (che per ogni emarginazione sociale esiste oggi una risposta sociale massificata) ma nella possibilità espressiva di produrre sentimenti (è questa infatti la più evidente repressione che la massificazione e l'uso dei mass media compie nei confronti dell'uomo).
Va recuperata l'arma della disponibilità dell'uso dei sentimenti collettivi dell'emarginazione, della femminilità dell'essere uomo (è possibile dirlo?). Accettare e riconoscere che la questione giovanile, il movimento delle donne, la protesta degli emarginati ad esempio, sono oggi le più convincenti azioni di incisura anche qualitativa prodotte nella sclerotizzata realtà sociale contemporanea, può servire a far capire quale processo di "eversione" è in grado di vivere oggi chiunque voglia ancora non rinunciare a progettare (artista o meno), a proporre spazi creativi (vivere) con un protagonismo di massa privato da ogni maxideologia (fatto di segno positivo questo se liberativo da schemi precostituiti acriticamente), reso propositivo da microideologie capaci come la vita breve delle libellule di spazi luminosi di poche ore (l'arte dell'effimero, ad esempio, però già subito assunta con segno negativo dai mass media) capaci però di lasciare tracce su chi si interroghi sul modo di essere di ciascuno (la propria realtà non dimenticata e non resa estranea dalla realtà), comunque dimostrando che l'arte, la creatività hanno ancora diritto di cittadinanza nella società riconvertita in produttrice / consumatrice di sentimenti, di passioni, in scavatrice critica e razionale delle realtà divergenti, delle piccole storie.
Un artista così rappresentato, così capace di sé, di accettare cioè l'incertezza del proprio essere privato, riproponibile però in dialoghi possibili di tante diverse microrealtà collettive in incessante mutamento e perciò oggi ancora a dimensione di realtà vagamente proponibili ma suggestive di un "grande" domani (utopia dell'avvenire, cara agli affetti di ogni vero artista) può essere una risposta dialettica e critica soprattutto, apparentemente passiva (in ogni caso è da rifiutarsi ogni interpretazione intimistica), sostanzialmente realista e creativa al proprio io individuale.
Risposta dunque per il proprio "essere privato" di chiunque lo voglia ma, e la risposa è implicita, conseguente e semplice, anche rivolta a ciò che è "pubblico", se "pubblico" significa riappropriazione di una società che si è saputo rivivere (proporne la ricostruzione senza progetti preventivi ma intuitivamente ideali) insieme agli altri.
Afferma Alfredo Reichlin: "questo risalire dall'uomo agli uomini può esporci ad una accusa di retorica umanistica e di individualismo... Chi riduce il marxismo a sociologia e la rivoluzione a puro capovolgimento delle forme di proprietà può sentirsi infastidito dinanzi a chi non voglia solo vedere la foresta della società ma anche il singolo albero.... Ma esso (il movimento socialista) non si sarebbe aggregato mai senza l'esplodere di bisogni umani non solo materiali ma spirituali, senza la passione e l'idea di una liberazione e solidarietà umana". (2) Oggi il "non esserci" all'interno di ciò che è necessario alla comunità, non appare un rifiuto della stessa ad una parte di sé (abbiamo già sottolineato come per ogni settore emarginato la nostra società riserva un recupero al suo interno, per cui anche per gli artisti è previsto uno spazio codificato, qualificato e riconosciuto), ma piuttosto un riconoscimento che questa società non l'hanno costruita tutti; o più esattamente che certi modelli (certi artisti, certe donne, certi giovani, etc.) sono simbolici di simboli di categorie, se lo si vuole in ogni modo, se si desidera esserci e se si lotta per entrare nella categoria, se si vuole arrivare a simboleggiare le proprie categorie (artisti di categoria A, donne, giovani, emarginati anche, di categoria A), con la conseguenza che l'equilibrio che si cerca tra il come essere "privato" e come vivere il "pubblico" diviene un falso problema, che si fa oscillare tra il volersi rispettare costi quello che costi e il farsi riconoscere non importa come dalla società, da tutti gli altri, dalle istituzioni appunto, pubbliche e private.
Per questa problematicità di ruoli, non sempre facili da vivere e con scelte spesso umanamente oscillanti, appare più spiegabile il perché la nostra organizzazione appaia sostanzialmente sconcertata e squilibrata nei rapporti con la società nel suo complesso, con gli artisti stessi, soprattutto con quelli più rappresentativi che rifiutano la adesione alla nostra organizzazione per l'idea mal capita che un artista non possa e non debba schierarsi se intende rispettare la propria individualità e il proprio privato riconoscimento sociale, consegnandosi così all'idea conservatrice di una società che non muta.Nel riproporre la necessità di un impegno organizzato degli artisti è necessario riflettere ancora con più attenzione sul recupero di quelle analisi di atipicità del nostro sindacato rispetto il movimento sindacale nel suo complesso e che, all'atto della sua costituzione e poi sempre in termini ricorrenti, erano parsi la caratterizzazione più evidente, convincente ed esplicativa delle motivazioni ideali che ci spingevano ad intervenire nella vita sociale come forza organizzata. L'intero numero del giornale si propone di indagare, con tagli diversi, sulla questione delle istituzioni pubbliche e private, sulle prospettive di lavoro per il nostro sindacato su questo tema, sulle oscillazioni paradossali e parossistiche per certi aspetti delle soluzioni attuabili o solo possibili, sui dialoghi "impossibili" di chi vuole "starci" e di chi vuole fare entrare vecchie regole e cose già dette nel grande circo del mercato vecchio e nuovo. A me interessa ribadire (lo dicevo all'inizio che la mia attenzione si sarebbe soffermata prioritariamente se non solamente, sul privato dell'essere pubblico dell'artista rispetto un suo porsi verso l'istituzione vista come collettività), come ogni verifica e ogni passo in avanti non possa non tenere conto di come l'evoluzione dei comportamenti della prassi debba venire rapidamente, senza conformismi e ritualismi, come le indicazioni da cogliere debbano venire dal "sentirsi", come parimenti debba fuggirsi ogni ribellismo intimista, ogni istintualità e casualità, ogni isolamento, rivalutando il senso del sapere criticare, del rigore delle analisi, dei comportamenti, dei legami sanguigni e affettivi con la realtà, e ancora liberando il piacere dell'invenzione, della scoperta, dell'essere minoranza per cercare di divenire maggioranza di cambiamento.
Ciò che serve è credere nella necessità a proporsi e a confrontarsi tra tutti e con se stessi, con un atto di fiducia me lo si consenta anche verso la nostra necessità di essere organizzati, di stare insieme.
Serve sapere riscoprire e riaffermare il potere della contraddittorietà critica delle nostre scelte, individuali per essere collettive, proponendo le stesse come metodi di vita comunque creativa.
Paolo Pannisi
1)Alberto Granese, la rivolta giovanile e larisposta delle società; Paese Sera del 10/8/81
2)Alfredo Reichlin, l'albero e la foresta; l'Unitàdel 13/6/81