Linguaggi dell'arte chiosando Mario Vargas Llosa ovvero del mercato drogato per comodità
di Paolo Pennisi
Discutere d'arte (di qualsiasi linguaggio, dal teatro alle arti visive, dal cinema alla musica alla scrittura) non è impresa facile di questi tempi di banalizzazione dei messaggi il cui fine è il divertimento.Riuscire ad allietare il pubblico "è già molto" dice Mario Vargas Llosa in un suo intervento su "La Stampa" del 5 marzo 2002 a proposito di uno spassoso spettacolo su Hitler tenuto a Broadway. D'altro canto l'operazione di banalizzare un tema a cui si lega una tragedia enorme e mostruosa aggiunge Vargas Llosa "non fa altro che manifestare un fenomeno molto più generale e caratteristico di quello che è stato definito malamente postmoderno: il crollo di tutti i valori tradizionali nel mondo della cultura sotto la tirannia sacrosanta della frivolezza ludica, valore supremo e forse unico che nessuno mette in discussione in questi albori del terzo millennio".
In altre parole Llosa dice che non è l'opera d'arte che si propone al pubblico per fornirgli una fonte di riflessione e di turbamento ma che è quest'ultimo (il pubblico, la gente, il mercato) che detta le regole del gioco, detta all'artista le regole del gioco, che è poi una sola, il divertimento senza pesi aggiunti di alcun tipo, senza stimoli e incanti. La nuova regola dice ancora Vargas Llosa è impedire qualsiasi impegno da parte del fruitore "ad affrontare in modo non passivo la problematica umana e di incitare l'immaginazione e la sensibilità a trascendere i dati più evidenti del reale per cercare le verità nascoste". Potremmo sintetizzare questo nuovo procedimento artistico e sociale con un evitare di assumere responsabilità critiche personali, non im¬pegnare la propria intelligenza in una fatica che si ritiene inutile. Destrutturare insomma, decostruire ogni immagine ed ogni idea che costruiscono la cultura facendo in tal modo disfare la natura più profonda della natura umana in un miraggio sfumato nel nulla. Così parole, immagini ed idee, "invece di rinviare al vissuto, all'esperienza concreata degli esseri viventi, rinviano solo ad altre parole, immagini, idee, in un labirintico gioco di specchi, un fuoco d'artificio autosufficiente nel quale è inutile cercare spiegazioni del mondo, dei rapporti umani, dei destini individuali".
L'arte e la vita sono così, in quest'ottica, due realtà indipendenti che non possono mescolarsi "sovrane e chiuse in se stesse, ognuno con la sua idiosincrasia, i suoi valori e la sua morale".
Larte dunque come divertimento, distrazione dalle realtà dure del quotidiano, un'arteaddormentatrice, secondo una definizione di Cèsar Moro, un'arte dalle forme in superficie divertenti e scintillanti ma dalla viscere spesso "svicolanti e ciniche".
I linguaggi severi dell'arte sono banditi, i richiami dolorosi e faticosi non valgono per il mercato, per il pubblico, per la cultura; e questo processo ludico e superficiale dell'arte vale se l'idea che tanto questo mondo (e quello che verrà) non può cambiare in meglio, che ogni sforzo che nei secoli è stato de¬mandato all'arte è inutile a mutare la conoscenza dell'uomo e le verità più profonde dell'esistenza cosmica.
Certo, l'arte è anche gioco e divertimento, intelligente e necessario se contiene i germi feroci della critica, dell'ironia e del sarcasmo, se il fine che la muove è la richiesta di partecipazione alla formazione di coscienze attive e partecipi. Ma ciò che la levità creativa del nostro tempo propone è superficialità e banalità del quotidiano, lo spunto appena accennato di un qualcosa che in realtà non esiste.
Si potrebbe dire che dopo la teorizzazione della morte dell'arte si sia finalmente giunti all'affermazione dell'arte per l'arte, del nulla per il nulla; ma quanto dietro questo nulla si cela in realtà un ben preciso e riconoscibile groviglio di interessi, il ben conosciuto mercato globale dell'oggetto e dell'idea che, in vendita esposizione dopo esposizione, insegue semplicemente il raggiungimento di un suo ulteriore aumento di caratura economica?
Ma siamo davvero di fronte ad una ineluttabile ed irreversibile globalizzazione universale del concetto dell'arte inteso "come frivolezza ludica, valore supremo e forse unico" e che sia perciò impossibile metterlo in discussione "in questi albori del terzo millennio?"
Non suona, piuttosto, questa affermazione, come un comodo e pigro alibi a non defatigarsi in altre ricerche, in altre esplorazioni dell'essere umano che, piaccia o meno, conserva in sé sangue ed energie giovani non disponibili a ricevere lezioni ordinate dall'alto da quello stesso potere mediatico dell'economia e del mercato che pure esiste anche nel governo delle cose dell'arte?