Sirene - Paolo Pennisi

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Sirene

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Da Sirene (romanzo del 1994-99 inedito, frammenti)

Il narratore

Sebastian era mio amico. Dopo la sua morte mi sono assunto il compito di sistemare le sue cose, dare un destino alle sue opere. Rovistando nel suo studio ho trovato certe carte, pagine di diario in disordine che mi hanno rivelato di lui qualcosa che non conoscevo, che mi hanno turbato, fatto dubitare della possibilità che abbiamo di conoscerci, di essere capaci, noi esseri umani, di onestà nel raccontarci come siamo, di esprimere i sentimenti così come amiamo descriverli. Mi aveva nascosto una sua parte profonda, l'esigenza segreta della sua vita, o forse io, più banalmente e colpevolmente, non avevo prestato attenzione ai suoi richiami.

Le cose che ho letto mi hanno dato paura e dolore, smarrimento, per questo ho voluto sapere altro ancora. Ho interrogato la sua compagna Alida, le sue amiche che amici non ne aveva, al di fuori di me, per quel poco che ho saputo esserlo per lui, per quello che può valere sapere oggi di lui. Ho così scoperto che tra loro esisteva qualcosa di particolare. Ne ho fatto un resoconto che vi espongo così come l'ho raccolto. Ho costruito una sequenza degli avvenimenti attraverso le varie testimonianze, naturalmente secondo una mia personale ricostruzione. Nella maggior parte dei casi sono fatti che mi sono stati riferiti a voce e che ho trascritto; per quanto riguarda invece la narrazione di Alida è la riproposizione esatta di quanto lei mi ha fatto avere per iscritto dal carcere dove sconta l'ergastolo. Il resto è preso dai fogli di Sebastian, quelli che in qualche modo potrebbero completare la sua vera essenza, che non era solo quella che mostrava quando si presentava brillante e caustico nella vita quotidiana, che non era quella drammaticamente intensa rappresentata dai suoi quadri, ma che forse non era neppure quella lacerante che ha lasciato nei suoi scritti.
In ogni caso mi rifiuto di credere che la sua verità fosse quella che ha vissuto nel segreto del suo tormentarsi. Se così fosse, perché mai dovremmo continuare a fingere di essere uomini?

Alida

Divenne una giornata storica per tutti, quel 4 novembre del 1966 in cui Venezia annegò in una putrescente invasione d'acqua, sconciata nelle fondamenta, nell'orgoglio di città che era stata sovrana e puttana entusiasta di vita e che oggi gemeva di arteriosclerosi di muffa di puzza di piscio di gatti di cloro e immondizie marcite galleggianti. Fu una giornata importante per me, perché allora conobbi Sebastian.

Venendo a piedi da S.Elena mi ero trovata circondata dall'acqua che montava da ogni cantone della città. Mi ero fermata rabbiosa di pioggia e di freddo sul ponte che sta di fronte alla scuola di S.Giorgio degli Schiavoni, non riuscivo a dominare una irritata eccitazione che mi faceva iperreattiva e insieme incapace di decidere il da farsi. Vicino, un uomo si accingeva a scendere i gradini del ponte per avventurarsi nella calle invasa dall'acqua. Mi accorsi che strascicava le gambe sciancate, pur muovendosi con energia. Mi avvicinai istintivamente per offrirgli aiuto, o meglio mi sentii come attratta da quel disordine fisico che lo faceva ondeggiare e lo rendeva però così vitale, così armonico e padrone nell'acqua che ci assediava. Mi pose addosso uno sguardo duro, gli occhi socchiusi, strabici attraverso gli occhiali spruzzati di pioggia, il viso pallido murato in una barba rasa.

Di sorpresa sorrise, e il tarlo di un accadimento sconosciuto mi turbò. Non disse nulla, afferrò prepotente il mio braccio e affondò giù, gradino dopo gradino, nell'acqua rigonfia di scirocco. Nel discendere, la sua mano che premeva ritmicamente contro il mio seno mi dette la sensazione di subire una violenza inaudita prima di allora, ma anche di essere di fronte ad una forza primitiva, naturalmente protettiva. Abitava a poche decine di metri; fu quella la prima volta che entrai nella sua casa e che provai l'emozione della lama di luce che scopre appollaiata sulle scale la stanza viola, la cucina bianca e d'acciaio e l'orrore di un desiderio che si ripropone sempre insoddisfatto.

Ti voglio, mi disse. Non seppi opporre nulla, non mi domandai neppure perché ero lì, a farci cosa. Seppi solo sdraiarmi sul letto, le gambe penzoloni, l'impermeabile aperto che sgocciolava lucido d'acqua. Mi sollevò la gonna con un gesto crudele, sbottonò rapido i ganci del body, appoggiato con una mano sul seno mi premette dolorosamente mentre rapido con le dita dell'altra mano mi cercava. Mi montò furente, l'abito era nero e lucenti i suoi capelli bagnati, gli occhi sperduti in un'angoscia profonda; mentre sussultando mi invadeva, vidi il suo viso arrendersi al sorriso indefinito di chi si è imposto di vivere contro ogni avversità, riconoscendola e non disprezzandola. Riconobbi l'infinito sconosciuto che mi aveva violata sul ponte mentre l'acqua montava furiosa dal mare e frustava le cose dal cielo, e lo amai.
(Vivaldi 443)
Il tipico interno di una antica casa veneziana, soffitti vertiginosi a travatura di legno scuro riverniciato, stanze muffe di offuscate penombre che nelle giornate invernali infittivano malinconia. Il tepore del sole, quando c'era, al mattino solamente e per poche ore, transitava a rettangoli irregolari strascicandosi sulla palladiana del salone per pendolare poi sulla parete di fronte scavalcando due finestre nemmeno grandi che gettavano sul giardino di fogliame intricato in ogni stagione, pozzo verdecupo solitario e disabitato di fiaba nordica, trapassato per metà dalla luce con le sue lame spadaccine, il resto immerso negli angoli dell'umidità sprofonda, l'edera che rampicava arrogante in sparpaglio sulle muraglie di mattone sfaldato, tra i cocci di vetro dell'orlo verso il cielo.

A fianco della scala, giù all'ingresso, si imbucava un magazzino rincagnato, a travature, restaurato alla meglio, immerso nel buio sempre, con una finestrella a sbarre agganciata dalla ruggine al cortile del giardino, temibile come si immagina sia la segreta dimenticata di un castello in un libro di avventure. Lo stanzino era uno spazio segreto sconosciuto a tutti, il foro dell'angoscia di Sebastian; lì si ritirava a farsi violenza, lì aggrovigliava le corde i ferri le fruste, lì poteva finalmente riconoscere senza pudori il suo tormento, farsi rimbalzare contro la fame sua brutale di dolore.

Di questo covo conservo una memoria torva, appiccicosa, di ragnatele inspessite dalla polvere che si impigliano sul viso annegando il respiro, ma insieme un ricordo delicato, un'emozione cruda che di tanto in tanto risale a galla. Era una mattina di maggio (il sole era riuscito ad intiepidire un angolo di pavimento, i pensieri divagavano nella solitudine), alcune note lontane di flauto mi assalirono d'improvviso, mi aggredirono nervose per poi dedicarsi a se stesse in un mormorio affranto di tenerezze che mi scolpì l'anima, consegnandola ad un turbamento mai conosciuto prima. Ebbi la sensazione ferita che quel lamento infantile inseguisse l'infelice possibilità di rinascere e gioire dentro un altro essere vivente, un uomo cieco, una fredda lucertola, un fiore reciso reclinato nell'acqua intorbidata di un bicchiere. Ho creduto volesse farmi morire. Anni dopo seppi che quel lamento era il largo del concerto 443 del prete rosso veneziano; nel riascoltarlo, evocò una semplice malinconia per un tempo finito nella spazzatura dei ricordi e nessuna immagine.

Lo stanzino era uno spazio segreto sconosciuto a tutti, il foro dell'angoscia di Sebastian; lì si ritirava a farsi violenza, lì aggrovigliava le corde i ferri le fruste, lì poteva finalmente riconoscere senza pudori il suo tormento, farsi rimbalzare contro la fame sua brutale di dolore. Lo scoprii dopo qualche settimana che vivevamo insieme.

Sebastian

Da bambino disegnai sulla testiera di ferro di un letto abbandonato in soffitta una donna nuda in ginocchio. Aveva seni grandi e grandi capezzoli sporgenti. Salivo di nascosto lassù, mi inginocchiavo davanti a quella figura e la supplicavo di prendermi come schiavo, dalla porta della terrazza in cima alle scale la luce radente del pomeriggio rendeva abbagliante e miracoloso quel mio altare pagano, tutto sembrava vero. Davanti a quell'infelice sgorbio infantile credo di essermi masturbato la prima volta, di avere schizzato su quel viso di donna di ferro laccato di bianco le prime sante gocce di vita, e non erano certo ingenue, erano gocciole iridescenti, luminose e calde proprio come è richiesto ad un vero pittore.

Voglio solo poter desiderare e non raggiungere nulla, non avere, rimanere schiavo, annullare il mio tempo personale in quello di un altro, è stata lei la causa di questo, posso fare solo ciò che lei comanda, è lei il mio desiderio d'infanzia che si è realizzato.

Una nota aggiunta di lato

Uso spesso la parola violenza, eppure non so esattamente che cosa significhi, da quale parte del corpo nasce, dal cuore, dal fegato, dagli altri che ti assediano, dalle cose immonde che fanno attorno a te, o invece dallobbligo naturale a cui tutti siamo condannati, dover vivere in comunità accalcati assieme, asociali nel profondo. Talvolta mi fisso a pensare al destino di Ulisse. Si negò il canto delle sirene nel corpo ma non nellanima. Questo gli permise di vivere, è vero, ma per raggiungere cosa? Il sacrificio di non avere fino in fondo assaporato il canto e la morte insieme gli permise di tornare per uccidere, e credette con questo di avere dato la risposta che cercava al suo corpo, alla sua fisicità. Le corde lo rinserravano allalbero nel fluttuare delle onde; legato, desiderò soffrire mentre gridava che lo sciogliessero, i compagni inerti e ottusi erano la società che si meritava. Ma il suo cervello era ormai prigioniero delle urla strazianti dell'ignoto. Per questo cercò la morte alle colonne d'Ercole quando in realtà era già morto allora, tra le onda e le strida delle sue sirene. Che vale prolungare la vita quando hai già assaporato il senso della morte. Ho bisogno della mia sirena.

Confessione

Il fatto è che non ho voglia di parlare con nessuno, non trovo tempo per niente che non sia rimpiangere il mio passato e desiderarmi come non sarò mai più. Perché devo accettare di vivere in balia dell'inquietudine e della malattia, di un cervello bacato e di un corpo mal riuscito, resistere al continuo urto di un insieme di cose che ripugna? Perché devo pagare pegno ad una vita che ha come testimone della corsa unicamente la morte? Perché subire le regole di un puzzle di cui non conosco né il premio né, così si dice, l'obbligo ineludibile della punizione? Che gara onesta è questa mai? Non posso fare a meno di pensare che parlare agire vedere operare creare sia del tutto inutile alla comunicazione con gli altri, ognuno rimane quello che è, solitario maniaco sfrontato e spiritato tra tanti eguali, proiettati a difendersi dall'idea della morte che ci masturba ogni giorno, intolleranti e atterriti, incapaci di riconoscerci tali, tesi solo a nascondere a se stessi questo specchio ridicolo di orrori che rifrangono in ogni scheggia e che non afferri. Sono stanco di resistere, il fallimento è completo, il risultato miserevole quando non infame, non ho memoria degli eroici ricordi infantili di conquista e di vittoria, oggi è la nullità che mi pesa addosso, mi opprime quello che io penso di me. In questa stanza dal destino buio ho ascoltato per anni il sangue sciacquarsi nella vena grossa del polso, l'ho sentito scorrere, l'ho accettato come unica possibile verifica dell'inganno. I chiodi le corde i ganci che dovevano servire per assicurarmi la morte sono serviti invece a farmi abituare alla sofferenza della sopravvivenza. I pensieri si sfilacciano con il progredire della disperazione. Non ha più senso sopportare gli sguardi attoniti dei miei immobili pupazzi dipinti, mi hanno scrutato negli anni per l'inganno che li faceva vivere, paralizzati in eterno dalla mia volontà, chi rosso e chi ocra, chi con un occhio bovino e chi con tre dita, chi crocifisso e chi piangente di un dolore maestoso ed ora anch'essi sono in punto di morte né più né meno di come lo sono io con il mio corpo. L'immortalità ripugnate delle cose! Ridicoli prigionieri, quanto ridere! voi, miei ibridi carnefici, voi che mi trattenete in vita, impotente a ribellarmi sulla tela del tempo fino a che qualcuno non vi squarterà o brucerà.

Mutazione

Prego, entrate! La mia stanza di pittura è un bordello sfolgorante di oggetti accatastati, di rifiuti e spazzature, li rappattumo per dar vita ai quadri. Volete sapere? Anni fa dipingevo, con tormentosi sapienti ripensamenti, personaggi massicci dallaria violenta, composizioni senza spazi d'aria, volumi standardizzati in un tempo strapazzato nel loro obbligo a soffrire rappresentanza morale e dignità. Oggi vi sbatto sul muso la verità falsata che trovo negli spezzoni di fotografie, quella dell'immagine che sta sotto, tento un progetto di modello immediatamente rivelato con una forma d'appartenenza al reale che non abbia equivoci; voglio dire che non costi la fatica, l'azzardo, di scavare a tentoni la forma definitiva che nessuno sa. Adesso sull'immagine piatta in bianco e nero io mi ci sdraio sopra, strascico addosso spietati colori, frammenti e stracci incollati a strati, tormenti, le impotenze per mutare l'altra verità o menzogne, le pisciate di vita. Niente paura! Sono un violentatore di immagini, un innocuo stupratore delle intenzioni di altri ed eseguo con gusto depravato ma in fondo innocente questa incombenza di guerra, segretamente, una routine imbelle di tipo militare che raccatta brandelli di vitaazionitormentidesiderifinzioni, rimangono le angosce e prevarico equilibri, mi addentro nelle forme rapinate con l'innocenza di quando si uccide nei sogni. Soddisfo l'ansia che preme senza tregua per compiere delitto alla debolezza degli idioti umani. Non ho più voglia di sciupare fatica.
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