Mostra di bozzetti per murales a Sacca Fisola - Paolo Pennisi

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Mostra di bozzetti per murales a Sacca Fisola

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(estratto catalogo)

Mostra di bozzetti per murales a Sacca Fisola
Introduzione del curatore Paolo Pennisi


Sacca Fisola è una piccola isola artificiale della laguna veneta, a poche centinaia di metri da Piazza San Marco, il cuore di Venezia.

Come ricorda, spiritosamente ma anche dolorosamente, un depliant del giugno 1965 di un gruppo di artisti veneziani, Sacca San Biagio (e quindi l'adiacente Sacca Fisola) è posta a Latitudine N. 45. 29' 40", Longitudine 12. 20. 13", e se ne ignora l'esistenza.

In realtà, questo breve spazio di terra (mq. 104.370) è una vicenda per molti aspetti «esemplare» di un modo di concepire l'intervento in un territorio ad urbanizzazione popolare, una occasione perduta per proporre un modello di nuova edificabilità urbanistica, stilistica e sociale, in un ambiente di straordinaria valenza storica e culturale come quello offerto dalla città di Venezia.

Sacca Fisola «esiste» praticamente dal dopoguerra, con un massimo sviluppo Negli anni sessanta, dopo un interramento lagunare, posto in appendice Ovest dell'isola della Giudecca, in opposizione di 180° alla più famosa, felice e ricca «appendice» dell'isola di San Giorgio.

È dunque un isolotto senza storia né antenati, un figlio povero e non desiderato (e perciò non sempre amato ancor oggi) da alcuna cultura; non da quella della tradizione della Giudecca, costruita da grandi esempi e da violente contraddizioni sociali e culturali; non dalla cultura contemporanea che ne ha fatto un concreto esempio in negativo di nongusto e di incapacità culturale, di noncuranza formale rispetto la realtà sociale che doveva insediarsi. (').

Sacca Fisola doveva infatti essere la risposta «moderna» e sociale (popolare?) ai bisogni di cittadini non abbienti ma forniti di tratti popolari talmente radicati nel modo di vivere e di costruire il quotidiano da permettere agli stessi di rivendicare una ben precisa e profonda identità storica, personale e collettiva. Si era (e si è ancor oggi) di fronte ad un insieme di individui storicamente capaci di riprodurre e far rivivere il tessuto culturale di una città come Venezia e di un quartiere come la Giudecca.

Nell'affermare questo, intendiamo anche dire come avrebbe dovuto emergere indispensabilmente (naturalmente, aggiungerei) una adeguata e corrispondente forma sociale dell'assetto urbanistico e costruttivo, in fase di progettazione. Così non è stato, e quanto ciò sia vero è di fronte a tutti, soprattutto nella coscienza (e forse l'abitudine di chi vive quotidianamente ne ha oramai offuscato la prima impressione/reazione?) di tutti coloro i quali continuano a domandarsi il perché di così ostentata cecità e brutalità creativa. Il progetto comprende una cubatura complessiva di me. 230.000, con la edificazione di 108 unità edilizie per un insediamento di alcune migliaia di persone.

L'area per attrezzature collettive o impianti d'interesse pubblico è di mq. 30.850. Ad una nutrita proposta di servizi sociali e sportivi, corrisponde in realtà una attrezzatura insufficiente rispetto le esigenze della popolazione.

In questo spazio/quartiere il distacco con la lezione architettonica di Venezia è totale. La scelta in tal senso appare certamente voluta ( ) ma altrettanto evidente appare la assoluta non proposta di ogni forma autonoma realizzata, rispetto scelte e tendenze del linguaggio artistico moderno. Siamo di fronte semplicemente alla neutralità formale, alla dimensione casuale degli spazi, ad un insieme di maniere «moderne». È assente ogni originale segno artistico, artigianale, storico, ogni richiamo alla tradizione o in opposizione a tensioni formali di avanguardia; a questo si aggiunge anno dopo anno l'incuria della manutenzione, soprattutto nelle zone più interne.

L'essere così intervenuti pone allora la domanda: di fronte ad una urgente necessità di affrontare una questione fonda mentale come la casa, con implicanze e valenze di indubbio valore umano e sociale, la nostra società è in grado di dare risposte, anche tenendo conto delle esigenze date da valori formali e dalla qualità artistica?

Ovvero, hanno diritto le classi più deboli ed emarginate di pretendere di usufruire di una forma estetica che le rappresenti e le «abiliti» a vivere in armonia con essa? E ancora, può la «forma sociale» avere diritto di cittadinanza in una società come la nostra basata sui costi quando il committente (diretto o indiretto non conta) non è in grado di rispondere adeguatamente sul piano economico? Una risposta in positivo a tali questioni parrebbe ovvia, e la storia sembrerebbe lì a confortarci, Venezia in prima linea e con essa tutta la civiltà rurale e popolare dì ogni tempo e di ogni paese.

Ma io stesso, in un incontro pubblico di qualche anno fa, ponendo la questione di quali rapporti esistano tra forma e ambiente alla Giudecca e a Sacca Fisola, vedevo emergere una ulteriore inquietante questione, la indifferenza cioè (o contestazione) verso ogni problema legato al tema del «bello» e del «brutto», anteponendosi ai valori storici, culturali ed estetici (riconosciuti e apprezzati certamente) II valore d'uso dell'oggetto casa.

Venivano rivendicati prioritariamente il muro asciutto, il riscaldamento, i servizi igienici, inesistenti nelle «storiche» casette della Giudecca, umide ed infestate dai topi. Ci si potrebbe accontentare di dire che Sacca Fisola e i suoi abitanti davano una risposta di «cultura» di tipo corrente, consumistica, integrata ai bisogni oggi riconosciuti primari e di massa. Una osservazione questa che un manifesto sul diritto alla casa dell'ottobre 1981 sembrerebbe ribadire quando chiedeva all'Amministrazione Comunale di intervenire per restare solo le abitazioni e non gli edifici pubblici e i musei. In realtà dare un tale giudizio sugli abitanti di Sacca Fisola e sui cittadini veneziani senza casa, sarebbe profondamente ingiusto; Sacca Fisola ribadiva correttamente il diritto ad una esistenza prima di tutto fisiologicamente sana e poi culturalmente umana.

Questa richiesta esprimeva certamente con chiarezza l'arretratezza delle proposte culturali rispetto ai bisogni della gente, ponendo sotto accusa il politico che affronta le «cose» con il metro miope di chi non riesce a proiettarsi oltre il contingente, che non sa e non vuole produrre «esempi» di cultura, non sa o non vuole rispettare il senso stesso della democrazia, quando la stessa voglia dire diritti eguali per tutti, anche diritto alla cultura, a vivere quotidianamente di essa, con una dimensione pubblica.


Che la questione non sia da sottovalutare lo dimostrano le enormi mostruose periferie di città storiche come Roma, Napoli, Milano, e come ancora oggi i mega quartieri di nuova edificazione (vedi i complessi Cita a Marghera e quelli a Campalto) rifiutino di «vedere» e «sentire» questo tema e le sue interconnessioni sociali e umane. L'intervento che la Bevilacqua La Masa propone, con i dieci murales scelti per decorare ambiente e case di Sacca Fisola, non ha certo il senso della riparazione e della sostituzione risolutiva a quanto non è stato dato.

Vi è l'intenzione, anche attraverso un recupero di confronto con gli abitanti dell'isola e il suo Consiglio di Quartiere, di riproporre il tema della forma artistica inserita nel tessuto sociale collettivo; vuole, con la coscienza critica propria degli artisti, riaprire una ferita, vuole sgridare, discutere, impegnarsi per proporre la creatività e l'oggetto creato come necessità del quotidiano per tutti, una «essenza» con cui viverci accanto ogni giorno, a cui chiedere qualcosa; per esempio che sappia affermare di essere vissuti in modo più umano e più fatto di sentimenti, di ricerca, di razionalità, di capacità di comunicare il modo proprio di essere individui e società a pari diritti, di cultura.
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