Ideatore/curatore Paolo Pennisi, catalogo/allestimento di Pennisi e A. Da Re
L'idea di questa mostra è nata non da un critico militante ma da un artista attivo nel settore delle arti visive. Questa sottolineatura per dire che siamo di fronte soprattutto ad un "pretesto" per curiosare su quanto oggi agiscano ancora tensioni ideologiche e ideali, spinte al cambiamento e al nuovo derivate da quelle componenti della società che si imposero come emergenti solo pochi anni fa (e sembrano secoli) e che parvero capaci di profondi cambiamenti. Tra i tanti temi possibili sulla emarginazione, sulla differenza ingiusta, sulla volontà di impegni totali e di conoscenze nuove magari da pagarsi di persona, ho scelto il rapporto tra uomo e donna, tra creatività e autoriflessione come il tema che forse è rimasto vivo con più forza e amarezza per tutti, uomini e donne, e non solo nel campo artistico. Per questo appuntamento ho pensato ad artisti giovani e meno giovani (è strano come sia stato più facile "trovare" tra i più giovani le donne che gli uomini) perché le esperienze e i desideri dell'oggi si legassero ai sogni e alle cose fatte ieri. A questo confronto mancano diversi protagonisti che portarono interessanti contributi a queste ricerche e che sono assenti solo per la loro appartenenza agli attuali organi programmatori della Bevilacqua La Masa.
Schema della mostra
II metro di lavoro maschile di "ordinare con ragionamento" potrà produrre un risultato al "femminile", la imprevedibilità fatta emozione?
La società, ogni società, abbisogna di schemi di qualsivoglia tipo, spessore e concretezza. Ma esiste pure un qualcos'altro che spinge oltre le regole di oggi e del passato.
Perché ostinarsi a fingere che parole, segni, esigenze individuali possono costruire società che abbiano regole comuni per tutti?
Questo è sempre accaduto e continua a riproporsi, dopo ogni vampata, avventura, sogno e illusione. Ma poi cercheremo di contare quante sono le regole che ci danno e che ci diamo, che conosciamo.
Che speranze abbiamo infine?
Accontentiamoci di svelare l'inganno, o il gioco; inganno quando ci si accorge che è la vita, gioco quando ancora la si vive.
"A" sta per arte, arte come amore dunque, quell'amore dagli infiniti possibili ed impossibili segni che si colgono solo dopo il tanto domani che si è accumulato in noi.
Quanto di arte, quanto di amore.
Amore cucinato in mille maniere da riconoscere e confondere: come felicità, identità, possesso, finzione, sopraffazione, comunicazione, solitudine, illusione, gioco, fantasia, specchio, violenza, passione, sadismo, e quanti ancora? e con esso e per esso donne e uomini, razionali o sensitivi, emotivi o logici, quasi tutti disperati o irrequieti, vivi o inutili come esseri normali, inutili come emarginati pubblici o privati, per ognuno si può narrare qualcosa, l'epitaffio o il segno maestro del loro domani.
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Presentazione di Paolo Pennisi
Parliamo di amore? Di arte invece?
"A" come...
Un pretesto? Un gioco, un inganno? Una domanda: se arte significa creatività, se creare è cosa propria dell'essere umano, è forse solo un caso che arte e amore, ognuno per strade proprie, possano meritare una stessa analisi in qualche modo assimilata?
E se questa idea, nel potenziale e nell'uso, è così accettabile e conseguente nella sua ambivalenza, perché allora il mezzo creatività (parlo dell'unica riconoscibile e perseguibile difesa della diversità) è divenuto campo preponderante di esplorazione e proposizione di una sola parte dell'umanità quella maschile assurgendo a simbolo base e gratificante della sua società, accanto agli altri suoi due grandi poteri, la violenza e il possesso?
Che l'uomo abbia voluto assorbire e conglobare solo per sé e in sé anche questo potere è dimostrato dal fatto che l'artista è stato, sempre più spesso, dichiarato come parte femminile dell'uomo (che vi sia della femminilità nel maschio è dunque accettabile) ma questa componente "minoritaria" dell'essere umano poteva essere riconosciuta solo se trasformata in qualcosa di sublimato: l'arte appunto!
E come non vedere in questo agire anche altre motivazioni, ad esempio il preciso intento di esorcizzare quella che la virilità concepisce come una inaccettabile debolezza, la forma omosessuale dell'uomo che, invece, rigenerata e motivata, veniva a trovare uno spazio riconosciuto, con il procedimento proprio delle società vincitrici che da sempre ciò che non possono accettare istintivamente e dunque riconoscere trasformano in elaborazione razionale (processo di mistificazione delle culture alternative).
Credo che in questa logica sia nata e si è affermata l'unica storia che conosciamo, quella dei fatti e dei protagonisti al maschile. Con tali indicazioni e forzature anche l'arte (che pure non abbisogna né di ideali basati sulla forza e sulla violenza né di pratiche mistificatone di alcun tipo, ma del riconoscimento della propria natura elementare e dunque capace di sentieri non univoci o preordinabili di esplorazione e di rappresentazione delle individualità, del razionale, della sensibilità collettiva) veniva impedita ad ogni ricerca al femminile (quale?), con l'unica forzata concentrazione nella sola vincente espressività al maschile, conglobante e razionalizzante ogni possibile potenzialità creativa, escludendo ogni altra sconosciuta invenzione che non si ponesse all'interno del fine-progetto del potere e del possesso.
Suggestione o forzatura?
Può essere, ma di certo qualcosa è accaduto nei secoli che furono, qualcosa che impedì o vietò all'arte di esprimere strade differenti, rendendo dunque più povera e incompleta l'intera storia umana.
Accadde sin dall'inizio, se è vero che ogni tradizione o religione tramanda subito la sudditanza fem¬minile come regola, impedendo sempre alla donna l'espressione dell'oggetto, il potere cioè di tramandare se stessa attraverso le forme costruite.
Si può capire che violenza e potere dovessero essere strumenti in mano dei soli vincitori, ma l'arte perché? Non mi è possibile andare oltre nell'analisi delle cause. Le ultime vicende della società contemporanea provano però che questo «qualcosa» di prevaricante vi è stato, che l'espressione dell'oggetto è stata impedita alla donna coscientemente, per la temibile forza divergente in essa contenuta. La rivoluzione compiuta dall'arte moderna, rifiutando totalmente le "regole" storiche del suo passato (e dunque in sostanza rifiutando se stessa come si era andata costruendo) ne è un po' la cartina di tornasole più viva ed efficace.
La rapida evoluzione delle ricerche artistiche, la frenesia ossessionata, quasi ossessiva, di risposte differenti, personalizzate, ha prodotto linguaggi non più omogenei tra ideologia e prassi sìa nelle società conservatrici che in quelle rivoluzionarie, con insistite varianti espressive tra loro in scontro, in elisione, in contraddizione, frutto sempre più di necessità divergenti di soggetti sempre più parcelizzati, propositori ognuno di un proprio linguaggio, di proprie tesi, valutazioni o visioni (razionali/irrazionali), al limite anche unici fruitori del proprio modo di essere (psicanalisi dell'arte).
Disperdendosi il progetto sociale che aveva governato per secoli, chiuso e conglobante in sé ogni potere, cadeva anche l'obbligo-necessità di regolamentare l'espressione artistica in quanto tale, le sue forme, il suo fine mirato; cadevano i valori di un'arte pensata al servizio di ideologie politiche e sociali (impostazione dell'espressione artistica vista come supporto di più importanti necessità collettive: arte come passatempo, come decoro, come estetica); cadevano i facitori omogenei alle civiltà maschili di ogni tempo, frutto della volontà di dare forma fisica cioè riconoscibile all'ideologia, indispensabile questa per garantire chiarezza di proposte alla società nel suo complesso ma anche conseguentemente per conservarne il dominio.
Ad essa è subentrato un linguaggio che si propone «semplicemente» come sorpresa incessante di un processo di umanizzazione (non umanistico, esaltazione cioè della superiorità dell'uomo su tutto) tendente a rendere eguale e possibile ogni potenzialità, abile e inabile, in ogni parte della natura, in ogni elemento conosciuto.
Se così è, creare diviene non il fine mistificato e adorato, codificato con leggi definite a priori, ma il mezzo per fare esplodere la potenzialità dei mille differenti, dell'imprevedibile, dell'impossibile, della ricerca di sé, in sé, per sé.
Quando Arvatov ai primi del '900, sotto la spinta rivoluzionaria di una società che ricercava valori nuovi, teorizzava l'immagine fertile di un comportamento felice dell'arte che fosse non legata all'oggetto da produrre ma al gesto armonico ed equilibrato del vivere quotidiano, pensava a nuove regole che cancellassero le incrostazioni sovrapposte degli schemi acquisiti. Realizzare questo significava trovare la risposta ai problemi della mercificazione dell'oggetto, ma anche e soprattutto alla divisione tra potenzialità differenti e dunque anche tra uomo e donna.
Affermare che eleganza e grazia, forma e contenuto erano il modo stesso di porsi dell'uomo quotidiano significava che l'essere essendo esso "arte", cioè l'oggetto prodotto rendeva inutile ogni ricerca di mimesi tra realtà e oggetto, facendo così cadere secoli di storia basati sulla dissociazione tra creatore e oggetto creato. Ciò non si è realizzato. L'arte del comportamento degli anni settanta che pure ha tentato di superare il rapporto tra pensiero e realizzazione è stata vinta con una mercificazione profondamente corrotta e corruttrice del soggetto creatore.
Altra era la proposta: nell'annullamento di ogni tradizione si rivendicava la possibilità di vivere creativamente ogni momento dell'esistenza, senza delegare ad una categoria particolare gli artisti tale modo dì vivere sublimato, da proporsi a tutti gli altri come modello liberatorio, edificante del domani e dell impossibile/possibile.
Fu e rimarrà forse per sempre solo una invenzione intelligente e fantasiosa che la società dei maschi ha negato, represso e sconfessato. Ma, un momento, non si afferma che l'affascinante capacità/prerogativa della donna sta anche nel vivere sé stessa e i suoi bisogni in un unico continuo transfert tra desiderio da realizzare (idea) e capacità di concretizzare (oggetto riflesso)?
E non è questa allora "l'utopia" realizzata?
Se così fosse, possiamo dire che tale "invenzione intelligente" è presente da sempre nella vita parallela delle donne, come arte-vita, completa e compiuta, fatta di simbiosi incessante ed evolutiva tra produtore e prodotto?
Paradossalmente questa armonia da sempre proposta e vissuta dal!'esistere al femminile, tra pensare ed essere (concetto sopraffatto dal maschile "pensare e produrre") può essere stato il motivo dell'emarginazione della donna, della sua sconfitta in un settore che le doveva essere riconosciuto come proprio e appropriato.
Il non aver prodotto oggetti per produrre invece comportamenti, potrebbe essere stata una scelta/proposta alternativa piuttosto che una incapacità? Riconoscere questo significherebbe anche forse contraddittoriamente che uomo e donna, avendo pari capacità creative, possono produrre oggetti "assessuati", e che dunque la loro diversità e specificità sta nel COME l'oggetto viene prodotto.
L'uomo produce fuori da lui (dissociazione tra produttore e prodotto), la donna ha necessità di rendere sé stessa oggetto creato (proiezione della comunicazione).
Mi sembra perciò deviante e superfluo discutere se la donna sa o potrebbe produrre oggetti. La donna sa e può: ha sempre saputo, ma ha voluto solo nella maniera a lei più congeniale, quella del comportamento, e ha potuto solo nei modi accettabili (e dunque imposti) dallo schema maschile.
Il tema della maternità vale a dimostrare questa tesi: la donna è riconosciuta nel ruolo creativo quando crea l'oggetto "figlio"; alla madre è stato infatti sempre riconosciuto un ruolo importante nella vita degli uomini che gli stessi gratificano e sublimano, ma con le loro regole, naturalmente!
Niente ragazze madri dunque, o non coniugate, e così via.
Suona male tutto ciò?
Discutiamo per un momento su questo aspetto particolare della donna, sull'unico sistema creativo a lei riconosciuto, la maternità. Per l'uomo una volta gettato il seme, il rapporto con l'oggetto-personaggio (il bambino) è da subito di distacco, avviandosi un confronto che avverrà sempre più alla pari sul terreno neutro della reciproca esistenza.
Per la donna, è difficile (o impossibile) non dare altri significati a questo rapporto costruito insieme per lunghi mesi (rapporto in osmosi).
"A" come amore, Amore come arte, e il gioco è svelato; per la donna artista allora, forse, accade che l'oggetto creato, partorito dalla necessità di creare, dal tormento, dall'inquieto cercare di sé, viene "frainteso" in oggetto gestito e dunque facente parte per sempre del proprio io e perciò da conside¬rare per sé e in sé anche dopo il periodo del progetto, del pensato, dell'amore.
L'uomo ama e progetta, poi espelle ciò che ha amato e pensato. La donna progetta, ama e pensa di sé, poi assorbe, rentroiettandolo e dunque ricostruendo, il ciclo in sé e non fuori di lei.
L'uomo è dunque un soggetto ORFANO (per ciò è disperato e orgoglioso, arrogante e impotente) dell'oggetto creato che vive di vita propria.
La donna, proiettando sé stessa in un ininterrotto ciclo di autoperpetrazione, di autoconservazione e di autoriflessione, userà l'oggetto prodotto per creare il suo modo dì essere e non altro oggetto autonomo; non sarà altra vita DA lei, ma altra vita DI lei.
Questo mi pare possa valere per la vita, ma è riproponibile in modo così conseguente e logico per il processo creativo dell'arte?'
Anche questo non so.
Ciò che è possibile dire è che guardare ad occhi aperti la dirompenza che l'arte moderna ha provocato, la grandiosa violenza dell'emozione che si trasforma in razionale, in conosciuto e fisico, in oggetto, significa che nessuno, proprio nessuno è escluso da questo terribile gioco che non sai a cosa serve, se è ampio e importante, se è normale e facile.
Introduzione di Rosangela Pesenti
Voglia prepotente di perdere tempo, di buttarlo allegramente dalla finestra aprendo questo vetro che da troppi giorni aspetta di essere pulito, consumarlo senza pensieri, senza pensare che le scorte sono limitate, godermi la mia voglia di vivere e non interrogarla, rifletterla, scriverla, ma goderla semplicemente nel sole di questa primavera reticente, passeggiare coi miei figli nella campagna nuova.
Non è possibile ecco, proprio loro, ricomincia il turbinio di parole amore, arte, realizzazione, mutamento. Ho scelto di vivere dentro le contraddizioni fino in fondo, non mi servono scontate soluzioni, voglio tutto al suo prezzo.
Che senso ha parlare di me?
Ho in testa, precisa, la traccia del discorso da fare; da qualche parte ho una serie di appunti ragionati, so scrivere una relazione. Che vado cercando? Non mi piace come scrivo in questo momento, c'è troppo di me, impastato dentro, della mia vita, del mio corpo, vi si sente il mio odore, tutti i miei umori, soprattutto le contraddizioni, tutte lì. Chiunque potrebbe riconoscermi: una donna.
Non riesco o non voglio mimetizzarmi nell'oggetto scrittura. Cerco una strada. La strada delle donne. Un plurale che mi da la nausea.
Ci sono stata in questo plurale fino infondo, fino a scoprirne ogni unità delle migliaia che lo compongono, che lo disgregano. Eppure esiste, lo sento dentro e fuori nei tentativi maldestri che abbiamo fatto per esprimerlo. Non si dicono pensieri nuovi con parole vecchie.
Anche questo è un tentativo.
Riaffiora la tentazione dell'utopia totalitaria, abbiamo capito, facciamo un progetto e cambiamo, ma noi sappiamo che il mondo non si cambia così, non è questo il modo.
Il tempo è una stanza tutta per me, di questo ho bisogno ma non voglio privilegi e questo è un privilegio.
Lo statuto dell'intellettuale cominciò con Petrarca, dicono, e l'uomo si divise, segmentò la sua vita, le sue possibilità. Si inventarono i ruoli, si separarono le competenze, l'intellettuale, il politico, l'artista, l'operaio, la donna. La massima produttività, il massimo prodotto, la possibilità la voglia inconscia dell'autodistruzione totale. Di colpo ogni ruolo perde di significato, l'artista può dipingere fiori sulle capsule dei missili, può crogiolarsi nell'impotenza della denuncia o tacere. Esiste la possibilità della ricomposizione, una nuova speranza? Esiste (quel punto di domanda mi sembra azzardato, vorrei ridimensionarlo un po', temperare la speranza col disincanto, ho bisogno di nuovi segni grafici) ma non è facile, detesto il dilettantismo, fare di tutto un po' e tutto male. Ogni uomo può essere artista, può creare? No, non è questa la strada.
Una stanza tutta per sé, ho letto e riletto le sue parole fino infondo senza capirle mai fino infondo, fino a quel giorno, fino a quel fiume in cui hanno scelto di tacere per sempre.
Una stanza tutta per sé, il privilegio, di questo dunque hanno bisogno le donne per produrre arte, essere uguali agli uomini, le stesse possibilità, l'emancipazione? Ci ho creduto anch'io senza avere mai il coraggio di sceglierlo fino in fondo.
Una stanza, il tempo, il privilegio per poter produrre; la mancanza come alibi. Ho letto e riletto i suoi libri tra gli altri, come gli altri, Woolf, Joyce, Kafka, Roth. Lei come gli altri, intellettuale e artista, e alla fine, inspiegabile, quel fiume. Si dice vi sia discesa dolcemente, vestita di bianco, come incontro alla vita.
La vita, sta qui il nodo, lo sento ma non riesco a dirlo, sento di aver capito, sto sciogliendo il nodo giorno dopo giorno, sto seminando faticosamente quella speranza rassegnandomi all'anonimato del seminatore (qualcuno domani sarà un albero).
Lei era una donna, in lei l'intellettuale non era un segmento, lei era il tutto, il silenzio dell'impotenza non poteva che tradursi nell'impossibilità fisica della parola. Così la morte ha restituito la sua verità alla vita.
Forse la differenza, la novità, sta proprio qui. Mi fanno paura le affermazioni, le certezze, ho dovuto distruggerne troppe per cominciare a vivere e mi sembra di sentirmi in pace solo adesso con questo silenzio in cui ogni cosa ha la sua eco, dove ogni certezza ha legittimato il suo contrario, la coerenza non è più finzione o monumento ma solo la concretezza della ricerca.
Adesso so perché non sceglierò la morte per vivere e neppure il compromesso.
La differenza sta qui ed è banale: vivere interi. Le donne non hanno mai prodotto niente che non le coinvolgesse per intero. Curioso usare una doppia negazione per un'affermazione.
Forse perché questo intero in realtà è stato gestito in uno spazio talmente minuscolo da poter essere considerato una briciola intera; migliaia e migliaia di briciole per migliaia di anni; i resti della tavola sulla quale i padroni si sono spartiti il bottino.
Il mondo mi preme addosso, mi soffoca questo mondo costruito dai maschi, dimensionato sulle loro paure.
Con quanta pazienza potremo costruire pezzetta per pezzetta la nostra storia. La storia: hanno messo insieme un puzzle credibile dimenticando nella scatola la maggior parte delle tessere, non è così facile romperlo e ricomporlo. Con pochi elementi il gioco è più semplice e quadra facilmente.
Per la verità ci vuole troppa pazienza.
Improvvisamente la fretta. L'altra metà dell'avanguardia, le tele di Penelope, Michelangelo non era una donna, non ci sono state grandi artiste donne. Spiegatemi che così l'arte e io farò il resto.
Di nuovo lei ritorna, un'ombra amica, sorella.
La sua ragione lucida, la sua follia è la nostra.
Lo scrittore, l'artista è sempre il prodotto della sua situazione storica, delle condizioni materiali della sua vita. Non basta una stanza, non bastano le briciole della vita.
Se l'arte è un' aspetto della capacità umana di esprimersi nell'oggetto, il problema sta tutto nella possibilità e nella motivazione. Sono queste le coordinate sulle quali incontriamo l'oggetto-arte.
Arte, amore, realizzazione, tutto al fine si muove sulle stesse coordinate.
La possibilità di vivere interi senza rinnegare, senza tacere, senza fingere.
Ancora la negazione, sappiamo ciò che non vogliamo essere.
Amore, la penna si ferma, si sospende la vita, potrei descriverne minutamente la fenomenologia, altri l'hanno già fatto, potrei aggiungere qualcosa o farlo in modo diverso.
Amore, arte, vi posso dire come vivo la mia battaglia quotidiana per la possibilità.
Mentre scrivevo (mentre stiravo, davo da mangiare ai bambini, seguivo la lavatrice, innaffiavo i fiori, mi preparavo per un corso, andavo a scuola) ho letto "Cassandra". Ormai accumulo libri senza trovare il tempo per leggerli.
Questo è stato un incontro felice. Quasi non credo a ciò che leggo. Da piccola, alle medie, giocavamo alla caduta di Troia, ricordo un'enorme catasta di legna nel giardino della mia amica e io ero Cassandra, la veggente. Così ritrovo Christa, lo stesso modo di percorrere la vita, la stessa sensazione di vedere trop¬po e troppo avanti, al di là.
Cosi, io piccola donna sconosciuta in questo paese affondato nella pianura silenziosa, in questo mondo di vinti, mi sento in armonia con la storia.
Amore, forse non so cos'è. Ho sentito a volte il mio corpo, l'ho dimenticato in sintonia con un altro, l'ho sentito esaltarsi fino allo spasimo nel parto, ma più spesso sento il gelo dell'angoscia, il brivido della necessità.
Sto sempre tesa ad ascoltare notizie di morte.
Ho scoperto fra i miei alunni rapporti violenti. Ho provato rabbia, la voglia di schiaffeggiarli. Sono cresciuti insieme nella stessa classe, ragazzi e ragazze ed ora non sanno trovare un 'identità se non nei ruoli stereotipati della violenza maschile (le ragazze non sono più le stesse, non sono subalterne).
Ho parlato, credo d'aver suggerito loro di cercarsi attraverso l'amore per sé e per gli altri. L'amore come conoscenza, una possibilità di conoscenza che non tarpa le ali. Vivere interi.
Non so se l'hanno capito.
La gente intorno a me non s'interroga, appartengono alla specie dei vinti, eppure anche in loro è penetrata l'inquietudine, fiutano il pericolo, lo vedo dal modo in cui ostentano le loro certezze, dal modo in cui si attaccano ad ogni più piccolo prodotto. Hanno riesumato tutti i riti, la loro vita è di nuovo scandita dalla tradizione, dall'evento ma dietro gli abiti bianchi delle spose non c'è più l'ingenuità del boom economico, la forzatura della recita traspare troppo spesso dalle sfilacciature del copione. Io non riesco più a parlare, anche la "politica" anche la "politica delle donne" odora di recita e non voglio semplicemente un nuovo copione.
Riflusso nel privato, balle, non sono mai stata tanto attiva, tanto attenta, tanto "sociale", sto solo cercando di vivere.
Vivere intera a tutti i costi. Una battaglia politica non un'affermazione individuale.
La prima possibilità per la quale lottare è la vita stessa.
Se il giorno posso talvolta ridere, la notte si popola di fantasmi. Lo stesso percorso. Anch'io, come Christa ha già detto qualche anno fa, voglio capire ciò che mi rende complice dell'autodistruzione; ritrovare la strada dell'opposizione concreta fuori da ogni ambiguità.
La produzione artistica femminile; in che senso è diversa l'arte delle donne? Nel senso che è diversa la vita delle donne, il modo in cui la realtà si incontra-scontra con la loro possibilità-capacità d'esperienza.
Autonomia è stata la parola d'ordine, l'ho tradotta con "vivere intere". Sono sempre più convinta che possa essere la strada sulla quale incontrarsi, sulla quale il mondo ridiventa umano: dell'uomo, della donna e della loro possibilità.
Amore, la possibilità di essere.
Arte, la possibilità dì essere nelle cose, interi, senza rinunciare alla storia e senza soccombere ad essa.
Da "IL GAZZETTINO" di Venezia critica di Paolo Rizzi
Ma i giovani d'oggi sanno cosè l'amore? O meglio: sanno far l'amore? Mi trovo perplesso, all'interno della mostra A come... amore, nelle nuove sale della Bevilacqua La Masa in via Einaudi. Dicono che l'amore oggi si fa con la testa. Certo. Ma qui, trasposto in pittura, l'amore pare qualcosa di cerebrale: una specie di voyeurismo forzato. Insomma, tante immagini, tante parole, ma... poca voglia di far l'amore. Mi sbaglio?
La mostra che inaugura una nuova serie a Mestre, città dei giovani è già di per se un fatto di testa. Anzitutto: niente erotismo programmatico, come si usa oggi. Mentre Firenze, Torino ed altre città declinano allegramente arte e pornografia (a cinquemila lire l'ingresso), qui la Bevilacqua La Masa ha impostato una specie di gioco a freddo sul tema dell'amore. Ha chiamato coppie (fittizie) di maschi e femmine a visualizzare l'amore secondo i diversi punti di vista.
Quindi A come amore; ma anche amore come solitudine, come possesso, come fantasia, come comunicazione, come illusione, come sadismo, e così via. Interessante l'idea questa di mettere a confronto sullo stesso tema (una faccia sempre diversa dell'idolo Amore) l'uomo e la donna.
Ma il risultato è stranamente deludente. Forse l'errore è stato d'aver inserito alcuni artisti che giovani non sono più. Sta di fatto che la mostra sembra una collettiva eterogenea. L'amore? Se non ci fossero tutti quei cartellini, il visitatore non s'accorgerebbe nemmeno del tema.
Dunque, c'è da chiedersi se i giovani oggi sentano l'amore come lo sentivamo noi un tempo: pulsione di sangue, Eros che vibra, vampata di rossore, ma anche tabù, senso di colpa, dolcezza mortificata, concerto di violini nell'azzurro... Forse eravamo troppo imbottiti di letteratura, troppo frenati dal dovere. Oggi si dice è arrivata la salutare distinzione tra atto sessuale e atto d'amore: il primo sentito come piacere e necessità fisiologica, il secondo come impegno sociale. Sarà così, e sarà anche meglio così. Ma ho girato cocciutamente la mostra ed ho trovato tutto fuorché l'amore, o forse non mi sono accorto che l'amore sè ormai talmente immedesimato nella vita da annullarsi in essa. Perdita dello specifico amore? Fine dell'amore?
Insomma, ognuno tocca il suo tasto prescelto: appunto solitudine, fantasia, comunicazione, illusione eccetera. Temi generici più dello stesso amore. Conclusione? Manca il rapporto: sia all'interno delle coppie, sia tra le varie coppie. Il linguaggio dell'arte dilata e disperde tutto. Cè chi usa il simbolo primario di un cuore rosso (Luciana Cicogna), chi si rifà al disegno iperrealista (Bruna Starz), chi serializza la fotografia in dimensione urbanistica (Guido Sartorelli), chi compone oggetti con arcana simbologia (Mirella Brugnerotto), chi campisce nebulose astratte (Enio Finzi), chi tenta di dipingere turbinosi pensieri sopra una panchina vuota (Angelo Zennaro), chi fa del lettrismo come un gioco estroso (Felicia Trivelli), chi fa uscire da un foro un cuneo di ferro (Ferruccio Bortoluzzi). Opere anche interessanti. Ma ciò non toglie il sospetto che, alla fine, l'amore venga interpretato... come solipsismo.
È il problema di centro: amore come comunicazione, arte come comunicazione. Se l'amore viene sempre più inteso in chiave di fisiologia personale, anche l'arte (da qualche decennio ormai) finisce per risolversi troppo spesso in mero esercizio individualistico. La crisi dell'arte d'oggi sta forse nella difficoltà di comunicare. Quanto meno occorre conoscenza specifica del «medium», oltre che sforzo interpretativo. Ma quanti, in questa mostra mestrina, sanno trovare la chiave giusta? Ripeto: la mostra appare come una collettiva eterogenea. Magari uno dice: «Che bello questo Gianquinto!» Oppure: «Splendidi questi marmi di Finotti!». Non è questo lo scopo che si era prefisso Paolo Pennisi nel programmare la mostra.
Di chi la colpa? Di quel folletto che è andato a nascondersi chissà dove: il folletto Amore. Vallo a ripescare.